mercoledì 28 aprile 2010

I numeri magici di Fibonacci

...Quando esaminai con cura il problema, mi divenne sempre più chiaro che tutti gli altri problemi erano semplicemente problemi matematici nei quali si andava a cercare un ordine e delle misure, e che non era rilevante se si trattasse di numeri, figure, stelle, suoni o qualsiasi altro oggetto che presentasse un problema di misurare.
Francesco Bacone

I NUMERI DI FIBONACCI
Nel 1223 a Pisa, l'imperatore Federico II di Svevia, fu ben felice di assistere a un singolare torneo tra abachisti e algoritmisti, armati soltanto di carta, penna e pallottoliere. In quella gara infatti si dimostrò che col metodo posizionale indiano appreso dagli arabi si poteva calcolare più velocemente di qualsiasi abaco.

Il test era il seguente: "Quante coppie di conigli si ottengono in un anno (salvo i casi di morte) supponendo che ogni coppia dia alla luce un'altra coppia ogni mese e che le coppie più giovani siano in grado di riprodursi già al secondo mese di vita?".

Un pisano, Leonardo, detto Bigollo, conosciuto anche col nome paterno di "fillio Bonacci" o Fibonacci, vinse la gara. Figlio d'un borghese uso a trafficare nel Mediterraneo, Leonardo visse fin da piccolo nei paesi arabi e apprese i principi dell'algebra, il calcolo, dai maestri di Algeri, cui era stato affidato dal padre, esperto computista.



Leonardo diede al test una risposta così rapida da far persino sospettare che il torneo fosse truccato:

Alla fine del primo mese si ha la prima coppia ed una coppia da questa generata; alla fine del secondo mese si aggiunge una terza coppia, ma vi sono due coppie in più, perché anche la seconda coppia ha cominciato a generare, portando il conto a 5 coppie, e così via. Il ragionamento prosegue con la seguente progressione:

1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, 377, 610, 987, 1597, 2584, 4181, 6765, 10946, 17711, 28657, 46368, 75025, 121393...
Con questo stratagemma fu facile per il Fibonacci trovare la risposta esatta.





Ogni nuovo numero non rappresenta che la somma dei due che lo precedono. Si tratta della prima progressione logica della matematica! Questa serie, oggi nota come "numeri di Fibonacci" presenta alcune proprietà (la più importante delle quali è che se un qualsiasi numero della serie è elevato al quadrato, questo è uguale al prodotto tra il numero che lo precede e quello che lo segue, aumentato o diminuito di una unità) che permettono di costruire alcuni trucchi sconcertanti.

Esempio: 21 2 =(13*34)-1= 441 e 89 2 =(55*144)+1= 7921



Più tardi, sempre esercitando la mercatura, Leonardo viaggiò in Siria, Egitto, Grecia, conoscendo i massimi matematici musulmani. Da queste esperienze nacque il Liber Abaci, un colossale trattato che dischiuse all'Occidente i misteri delle nove "figure" indiane e del segno sconosciuto ai greci e ai latini, "quod arabice zephirum appellantur", che indica un numero vuoto come un soffio di vento: zefito appunto, zefr, o zero.

martedì 27 aprile 2010


e mia Madre, fondendosi con me, ha fatto essenza nell'assenza

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lunedì 26 aprile 2010

Ipazia di Alessandria, di Rudolf Steiner

Fra gli altri discepoli dei misteri orfici vi fu anche quella simpatica personalità, che non ha tramandato ai posteri un nome esteriore, ma che chiaramente si mostra discepolo dei misteri orfici e della quale voglio ora parlare. Fin da giovinetto e poi per molti anni, questa personalità fu strettamente unita con tutti i discepoli orfici della Grecia; operò nei tempi che precedettero la filosofia greca e dei quali non si parla nelle storie della filosofia; quello infatti che si dice di Talete ed Eraclito è soltanto un'eco dell'azione esercitata prima d'allora, a loro modo, dai discepoli dei misteri. Tra di essi vi era colui del quale appunto ora parlo, discepolo dei misteri orfici e poi maestro a sua volta di Ferecide di Siro, quello del quale parlai l'anno scorso nel ciclo di conferenze di Monaco: L'Oriente alla luce dell'Occidente*.
Indagando nella cronaca dell'akasha noi ritroviamo l'individualità, vissuta in quel discepolo dei misteri orfici, reincarnata nel quarto secolo postcristiano. La ritroviamo nella sua reincarnazione, in mezzo all'affaccendarsi dei circoli di Alessandria, avendo in sé i misteri orfici tradotti in esperienze personali, certamente di specie altissima. È meraviglioso come tutto questo, nella reincarnazione, sia tradotto in esperienze personali. Quest'individualità rinasce sul finire del secolo quarto, quale figlia del grande matematico Teone; vediamo come nella sua anima riviva quello che, mediante l'osservazione dei luminosi rapporti matematici dell'universo, poteva sperimentarsi dei misteri orfici. Tutto ciò era adesso talento personale, facoltà personali; adesso questa individualità stessa abbisognava di un matematico per padre, al fine di ereditare certe doti, tanto personali dovevano essere tali facoltà.
Così volgiamo indietro lo sguardo verso tempi in cui l'uomo era ancora in comunione coi mondi spirituali, come per quel discepolo orfico; così vediamo una specie di proie¬zione di quell'individualità fra coloro che insegnavano in Alessandria tra il quarto e il quinto secolo. Questa individualità non aveva ancora accolto in sé nulla di quanto, per così dire, faceva trascurare agli uomini le deficienze dei primi albori cristiani, perché troppo vasta era ancora in quest'anima l'eco che risonava dai misteri orfici; troppo vasta perché ella potesse venire illuminata da quell'altra luce, dalla luce del nuovo evento del Cristo. Il cristianesimo, quale allora appariva per esempio in Teofilo e in Cirillo, in verità era tale che quella individualità orfica, dal carattere ora personale, era in grado di dire e di dare cose ben più grandi e più sagge che non coloro i quali in quel tempo rappresentavano in Alessandria il cristianesimo.
Tanto Teofilo quanto anche Cirillo erano invasi dall'odio più profondo contro tutto quello che non era cristiano-chiesastico nello stretto senso in cui entrambi questi arcivescovi lo avevano afferrato. Per loro il cristianesimo aveva assunto un carattere talmente personale, che essi assoldaro-no delle truppe personali. Da ogni parte si raccoglieva gente, destinata a formare quasi una guardia del corpo degli arcivescovi. A loro premeva il potere, nel senso più personale. Ciò che li animava era l'odio contro ogni tradizione di tempi antichi, che pure era tanto più grande dell'immagine contraffatta in cui si mostrava la luce nuova. Un odio profondo viveva nelle autorità cristiane di Alessandria, specialmente contro l'individualità rinata del discepolo orfico. Non ci sorprenderà quindi che contro l'individualità orfica reincarnata si sollevasse la calunnia di esser dedita alla magia nera. Bastò questo per aizzare contro la figura sublime e unica del reincarnato discepolo orfico tutta la plebaglia dei militi assoldati. Quella donna era ancora giovane, ma nonostante la sua giovinezza, nonostante le molte difficoltà che anche allora si opponevano a una donna che seguisse un lungo corso di studi, ella era ascesa a quella luce che poteva splendere più fulgida di ogni sapienza, di ogni conoscenza di quei tempi. Ed era mirabile come nelle aule scolastiche di Ipazia* - tale era il nome dell'orfico reincarnato - giungesse agli uditori entusiasti la sapienza più pura, più luminosa di Alessandria. Ella costrinse ai suoi piedi non soltanto i vecchi pagani, ma anche cristiani di profondo sapere e di acuta penetrazione come Sinesio*. Ipazia di Alessandria esercitava un influsso potente; in lei risuscitava l'antica sapienza pagana di Orfeo tradotta nell'elemento personale.
Il karma universale agiva veramente in modo simbolico. Tutto ciò che costituiva il segreto della sua iniziazione appariva ora realmente come proiettato sul piano fisico. Tocchiamo con ciò un evento che opera simbolicamente e che è rilevante per molte cose che si svolgono in tempi storici; tocchiamo uno di quegli eventi che apparentemente sembra soltanto una morte di martire, ma che invece è un simbolo in cui si esprimono forze e significati spirituali.
Un giorno del marzo 415, Ipazia cadde in preda al furore di coloro che attorniavano l'arcivescovo di Alessandria. Volevano a ogni costo disfarsi della sua potenza spirituale. Le orde più incolte e più selvagge vennero raccolte anche nei dintorni di Alessandria e aizzate contro di lei. Sotto falsi pretesti andarono a prendere la savia vergine, la fecero sali-
re in una carrozza, e a un segno dato la plebaglia furiosa si gettò su di lei, lacerandole le vesti; la trascinò poi in una chiesa e alla lettera le strappò le carni dalle ossa. Venne scarnificata, fatta a pezzi, e i brandelli del suo corpo vennero ancora trascinati in giro per la città dalla folla disumanizzata dalla passione. Tale fu il destino della grande filosofa Ipazia!
Qui troviamo accennato in un simbolo qualcosa che ha profondi nessi con la fondazione di Alessandria da parte di Alessandro Magno, quantunque il fatto avvenga soltanto molto dopo la fondazione della città. Esso rispecchia importanti segreti del quarto periodo postatlantico, ricco di eventi tanto grandi e importanti, che con un simbolo così poderoso, in un modo così paradossalmente grandioso, pone davanti al mondo persine quel fatto nel quale deve palesarcisi la dissoluzione, la dispersione delle cose antiche: l'eccidio di Ipazia, la donna più importante, vissuta fra il quarto e il quinto secolo della nostra era.

venerdì 23 aprile 2010

En tus brazos

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La Rosa di Paracelso, di Jorge Luis Borges

Nel suo laboratorio, che comprendeva le due stanze dello scantinato, Paracelso chiese al suo Dio, al suo indeterminato Dio, a qualunque Dio, di inviargli un discepolo. Imbruniva. Il magro fuoco del camino proiettava ombre irregolari. Alzarsi per accendere la lanterna di ferro avrebbe richiesto uno sforzo eccessivo. Paracelso, distratto dalla fatica, dimenticò la sua preghiera. La notte aveva cancellato l'athanor e i polverosi alambicchi quando bussarono alla porta. Insonnolito, l'uomo si alzò, salì faticosamente la breve scala a chiocciola e socchiuse un battente. Uno sconosciuto entrò. Anch’egli era molto stanco.

Paracelso gli indicò una panca; l'altro sedette e attese. Per un certo tempo non scambiarono tra loro nemmeno una parola. Il maestro fu il primo a parlare. “Ricordo volti d'Occidente e volti d'Oriente”, disse, non senza una certa enfasi. "Non ricordo il tuo. Chi sei tu e che vuoi da me?”

“Il mio nome non ha importanza”, replicò l'altro.

"Ho camminato tre Giorni e tre notti per entrare in casa tua. Voglio diventare tuo discepolo. Ti ho portato tutti i miei beni”. Tirò fuori una borsa e la rovesciò sulla tavola. Le monete erano molte e d’oro. Lo fece con la mano destra.

Paracelso, per accendere la lanterna aveva dovuto voltargli le spalle. Quando tornò notò nella sua mano sinistra una rosa. La rosa lo inquietò.

Si chinò, giunse le estremità delle dita e disse: "Tu mi credi capace di elaborare la pietra che trasmuta gli elementi in oro e mi offri oro. Non è l'oro ciò che cerco, e se è l'oro che ti interessa, tu non sarai mai mio discepolo.”

"L’oro non mi interessa” rispose l'altro. “Queste monete non sono altro che una prova del mio desiderio di apprendere. Voglio che tu mi insegni l’Arte. Voglio percorrere al tuo fianco la via che conduce alla Pietra”.

Paracelso disse lentamente: "La via è la Pietra. Il punto di partenza è la Pietra. Se non comprendi queste parole, non hai ancora cominciato a comprendere. Ogni passo che farai è la meta."

L'altro lo guardò con aria diffidente. Disse con voce chiara:

"Ma esiste una meta?”

Paracelso si mise a ridere.

"I miei detrattori, che non sono meno numerosi che stupidi, sostengono il contrario e mi accusano di essere un impostore. Non do loro ragione- ma non è impossibile che io sia un illuso. So che esiste una via.”

Vi fu una pausa e l'altro disse:

“Sono pronto a percorrerla con te. anche se dovessimo viaggiare per molti anni. Lasciami attraversare Il deserto. Lasciami intravedere almeno da lontano la terra promessa, anche se gli astri me ne vieteranno l'accesso. Ma prima di intraprende il viaggio, io voglio una prova.”

“Quando?" disse Paracelso, con inquietudine.

“Subito”, rispose il discepolo con brusca determinazione.

Avevano iniziato la conversazione in latino ora parlavano in tedesco.

Il giovane levò in alto la rosa.

"Affermano", disse, "che tu puoi bruciar una rosa e farla rinascere dalle ceneri per opera della tua arte. Lascia che io sia testimone di questo prodigio. Ecco ciò che chiedo, poi la mia vita sarà tua.”

"Sei molto credulo", disse il maestro.

"Non so che farmene della credulità; esigo la fede."

L'altro insistette.

"E’ proprio perché non sono credulo che voglio vedere coi miei occhi l'annientamento e la resurrezione della rosa."

Paracelso l'aveva presa in mano, e parlando giocherellava con essa.

“Sei credulo” disse “Tu dici che io sono capace di distruggerla?"

"Nessuno è incapace di distruggerla ", rispose il discepolo.

“Ti sbagli. Credi forse che qualcosa possa esser reso al nulla? Credi che il Primo Adamo nel Paradiso abbia potuto distruggere un solo fiore, un solo filo d'erba?"

“Non siamo nel Paradiso”, disse ostinato il giovane; “qui, sotto la luna, tutto è mortale.”

Paracelso si era alzato in piedi.

"E in quale altro luogo siamo? Credi che la divinità possa creare un luogo che non sia il Paradiso? Credi che la caduta sia altro dall'ignorare che siamo nel Paradiso?"

"Una rosa può bruciare", disse il discepolo in tono di sfida.

“V'è ancora del fuoco nel camino", rispose Paracelso. "Se tu gettassi questa rosa fra le braci, crederesti che le fiamme l'abbiano consumata e che sia la cenere a essere reale. lo ti dico che la rosa è eterna e che solo la sua apparenza può cambiare. Mi basterebbe una parola perché tu la potessi vedere di nuovo."

"Una parola?" disse stupefatto il discepolo. "L'athanor è spento, gli alambicchi sono coperti di polvere. Che, farai per farla rinascere?"

Paracelso lo guardò con tristezza.

“L'athanor è spento", ripeté, "e gli alambicchi sono coperti di polvere. In questo tratto della mia lunga giornata uso altri strumenti.”

"Non oso domandare quali", disse l'altro con malizia o con umiltà.

"Parlo di quello che usò la divinità per creare il cielo e la terra e l'invisibile Paradiso in cui ci troviamo e che ci è nascosto dal peccato originale. Parlo della Parola che ci insegna la scienza della Cabala." Il discepolo disse freddamente:

"Ti chiedo la grazia di mostrarmi la scomparsa e la ricomparsa della rosa. Poco m’importa che tu operi per mezzo del Verbo o degli alambicchi."

Paracelso rifletté. Infine disse:

"Se lo facessi, tu diresti che si tratta di un'apparenza imposta ai tuoi occhi dalla magia. Il prodigio non ti donerà la fede che cerchi. Dunque lascia stare la rosa."

Sempre diffidente, il giovane lo guardò. Il maestro alzò la voce e gli disse:

“E inoltre, chi sei tu per introdurti nella dimora di un maestro ed esigere da lui un prodigio? Che hai fatto per meritare simile dono?"

L’altro replicò, tremando:

"So bene che non ho fatto nulla. Ti chiedo in nome del molti anni in cui studierò alla tua ombra, di lasciarmi vedere la cenere e poi la rosa. Non ti chiederò altro. Crederò alla testimonianza dei miei occhi.”

Bruscamente, afferrò la rosa rossa che Paracelso aveva lasciato sul leggìo e la gettò tra le fiamme. Il colore si perse e rimase solo un po' di cenere. Per un istante infinito egli attese le parole e il miracolo. Paracelso era rimasto impassibile. Disse con strana semplicità:

"Tutti i medici e tutti gli speziali di Basilea affermano che io sono un mistificatore. Forse essi sono nel vero. Qui riposa la cenere che fu rosa e che non lo sarà” il giovane si sentí pieno di vergogna. Paracelso era un ciarlatano o un semplice visionario, e lui, un intruso, aveva varcato la sua porta e ora lo costringeva a confessare che le sue famose arti magiche erano vane.

Si inginocchiò, e disse:

"Ho agito imperdonabilmente. Mi è mancata la fede che il Signore esigeva dai credenti. Lasciami ancora guardare la cenere. Tornerò quando sarò piú forte e sarò tuo discepolo e in fondo al cammino vedrò la rosa."

Parlava con passione autentica, ma quella passione era la pietà che gli ispirava il vecchio maestro, tanto venerato, tanto attaccato, tanto insigne e perciò tanto vuoto. Chi era lui, Johannes Grisebach, per scoprire con mano sacrilega che dietro la maschera non c'era nessuno?

Lasciare le monete d'oro sarebbe stata un elemosina. Le riprese uscendo.

Paracelso l'accompagnò al piedi della scala e gli disse che sarebbe sempre stato il benvenuto.

Entrambi sapevano che non si sarebbero visti mai piú.

Paracelso rimase solo. Prima di spegnere la lanterna e di sedersi nella poltrona consunta, raccolse nell'incavo della mano il piccolo pugno di cenere e disse una parola a bassa voce.

La rosa risorse.

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martedì 20 aprile 2010

Quando un anacoreta entra in una bettola, la bettola diventa la sua cella e quando un cliente assiduo delle bettole entra in una cella, quella cella diventa la sua bettola.
Hujwîrî

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domenica 18 aprile 2010

Elis Regina, Meio Termo

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mercoledì 14 aprile 2010

Il Calice ricolmo, di Abu Ali Al-Husayn


I
Forse un calice conico ricolmo di bevanda
brilla come la luce del mattino.

Come se avesse al centro un tizzone rovente
che lo infrangesse con le sue scintille.

Ricorda ciò che vedi, pensa alla meraviglia
dell’unione dell’acqua con il fuoco.

II
Non credere, la lacrima dell’occhio
ha la stessa sostanza del mio sangue,
è solo il mio respiro che la fa uscire fuori.

Il sangue è reso bianco dal calore
di un ardente tizzone:
se quel tizzone si dovesse spegnere,
tutto il mio sangue rimarrebbe rosso.

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lunedì 5 aprile 2010

..comme puozz' raggiuná



Integrazione, parola amara
collacamento… miezz’o’ciemento,
orario fisso e frastuono dint’a capa
Chist’è o’paese e’rraggiuniere
uommene, fimmene, creature ... Ver más
tutti raggiunano a tutte quante l’ore

lo comme puozzo raggiunà
e comme puozzo raggiunà,
si raggiuno l’uocchie chiagne fora milleciento lagreme
i m’aggi’a scurdà o’sole, i m’aggi’a scurdà o’ mare e l’acque chiare
i m’aggi’a scurdà l’erba e a’voce antica d’o’silenzio
miezz’o’vico e a’caccavella e o’putipù - E come puozzo raggiunà.

Ah, stu naufragio dint’a Melano senza na varca e pure senza o’mare
e tu me dici «stasera usciamo» e dove?
Vie scanisciute e figure ignote, lampade al neon - Carmela cara,
torniamo a cuccia, oiné, ca nun è cosa -

E zitti senza raggiunà, e commo puozzo raggiunà,
si raggiuono l’uocchie chiagne fora milleciento lagreme,
nun ce resta che l’ammore, nu disperato, antico, eterno ammore,
se smorza a’luce a’branda cigolando int’a nuttata fridda
tutti i mali nosti fa passà… - E comme puozzo raggiunà …
E stu naufragio dint’a Melano
se chiamma un nome: Immigrazione,
immigrazione signiffica terrone -
E poi terrone vuol dire fame
vuol dire suonno vuol dire figli
vuol dire paese volato via vuole dire nustalgia

Eh, comme puozzo raggionà, e comme puozzo raggiunà…

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Let the Sunshine in